VERSO IL 35° VERTICE: IL DIFFICILE RAPPORTO TRA ETICA E IMPRESE
35° Vertice Antimafia Fondazione Caponnetto
Firenze, 13 dicembre 2025
IL DIFFICILE RAPPORTO TRA ETICA E IMPRESE
Interessi e complicità con la criminalità organizzata
di Claudio Loiodice
Non c’è congresso, convegno, assemblea o trasmissione dove non si parli di etica delle imprese. Ad ascoltare i vari discorsi, compreso questo mio intervento, sembra quasi di vivere in un mondo perfetto. Si sente spesso dei protocolli ESG (Environmental, Social, Governance), che tradotto in lingua comprensibile significa impatto ambientale, responsabilità sociale, qualità della governance. Credo che siano poche le imprese, tra le oltre cinque milioni attive in Italia, che ne hanno sentito parlare; meno quelle che li hanno adottati, e pochissime quelle che lo hanno fatto con assoluta convinzione.
Uno studio della Bocconi dice che circa il 60% delle imprese si è dotato di un apposito comitato. Un rapporto del 2023 dell’Osservatorio Socialis stima che oltre il 66% abbia intrapreso azioni di sostenibilità. Tuttavia, se guardiamo alla concretezza, solo lo 0,6% delle società di capitali e il 6% delle medie imprese ha depositato bilanci conformi alle direttive ESG. Ma ciò che salta più all’occhio è che solo un terzo delle imprese di Stato si è adeguato.
In conclusione, a distanza di vent’anni, la maggior parte del mondo produttivo del Paese rimane refrattaria e sfuggente.
La prima volta che si è sentito parlare di ESG è stata nel 2004, in un documento delle Nazioni Unite. Due anni dopo sono sempre le Nazioni Unite a suggerire tali criteri agli investitori istituzionali. Ma dovranno passare quasi vent’anni prima che l’Unione Europea emanasse una direttiva che ne imponesse la rendicontazione obbligatoria. Teoricamente — molto teoricamente — le imprese che non si adeguano a questo sistema dovrebbero essere penalizzate nell’accesso al credito. Sulla carta la direttiva imporrebbe, in mancanza di adeguamento, un rischio finanziario elevato e una valutazione negativa, con un impatto significativo sull’economia aziendale. Ma tra teoria e pratica la distanza resta abissale.
I protocolli ESG riguardano tre principi fondamentali: ambiente, società e governance. In ognuno di questi settori si insinuano con facilità i rischi di infiltrazione della criminalità organizzata. Tale rischio, molto spesso, viene addirittura percepito da una parte dell’imprenditoria come opportunità di guadagno: un terreno dove l’etica cede il passo al cinico utilitarismo del profitto, che da lecito diventa illecito. Un tessuto socioeconomico simile favorisce un contesto criminogeno ideale per le mafie e per l’imprenditore disonesto.
In ambito ambientale, la mancanza di politiche imprenditoriali di salvaguardia e prevenzione riduce lo spazio di tutela che la società ha il dovere di garantire, permettendo — ad esempio — una gestione criminale del ciclo dei rifiuti.
In ambito sociale, il mancato rispetto delle norme di tutela dei dipendenti determina riduzione dei diritti, sfruttamento e messa in pericolo della vita dei lavoratori.
I tema di governance, ai consigli di amministrazione sono assegnati compiti di assoluta responsabilità, idonei a garantire che le pratiche di gestione siano conformi all’etica, alla compliance e al rispetto delle normative.
Quando questi cardini dell’impresa responsabile — per citare Luciano Gallino e Adriano Olivetti — vengono meno, assistiamo a fenomeni criminosi estremamente dannosi. I CDA, gli organismi di vigilanza, i sindaci, i revisori e tutti coloro che gestiscono un’attività non sono chiamati a garantire solo l’interesse dell’azienda, ma quello dell’intero “sistema Paese”.
Fenomeni sui quali, a mio avviso, si presta poca attenzione, emergono nel diffuso conflitto d’interesse, che favorisce la corruzione. Il malaffare negli appalti — anch’esso generato dal conflitto d’interesse — continua indisturbato. La scarsa applicazione delle norme di tutela ambientale e la vergognosa piaga delle discariche abusive ne sono testimonianza. La sistematica violazione — e l’altrettanta omissione nei controlli — delle norme di prevenzione del D.lgs. 81/2008 alimenta numeri di morti e infortuni per i quali indignarsi saltuariamente non basta.
I modelli organizzativi del D.lgs. 231/2001, che dovrebbero comprendere tutte le prevenzioni citate, restano spesso solo sulla carta: strumenti utili a fare bella scena nelle presentazioni e sui siti aziendali, ma di fatto insignificanti.
Ho constatato codici etici — uno dei modelli previsti dalla 231/01 — e commissioni etiche che soffrono di una totale mancanza di indipendenza, requisito imposto non solo dalla norma, ma dal semplice buon senso.
Governance incapaci di tutelare le diversità e, soprattutto, le donne, soggette ad aggressioni, attenzioni morbose, atti persecutori e ricatti. Governance che non si impegnano minimamente — non dico ad annullare — ma nemmeno a ridurre il divario di genere e, parallelamente, quello salariale.
Per concludere — come sono solito fare — voglio chiarire che non si tratta solo di riflessioni sociologiche e criminologiche. Per questo vi porto un caso concreto che sto trattando da qualche mese, utile a mostrare le falle dei sistemi di prevenzione e sanzione. Naturalmente senza riferimenti specifici.
Si tratta di una società che da anni si presenta come produttrice di macchinari per la telatura dei tessuti: gli stessi che hanno maciullato la giovane di Montemurlo, Luana D’Orazio. Abbiamo scoperto che questo imprenditore non produce nulla: compra da una ditta cinese che assembla pezzi racimolati sul mercato, importa i macchinari in Italia, li etichetta con marcatura CE, li accompagna con manuali raffazzonati e improbabili, e li commercializza in Italia e all’estero.
Queste macchine, prive delle più elementari norme di sicurezza, vengono anche dotate di dichiarazione di conformità alle caratteristiche previste dalla normativa “Industria 4.0”. Il costo all’origine, secondo le indagini, è di poche migliaia di euro, ma vengono rivendute a circa 35 mila euro.
Chi le ha acquistate — molti, almeno — e solo nel nostro Paese se ne contano circa 300 pezzi (con una plusvalenza stimata di circa 9 milioni di euro) non avrebbe badato al costo: tanto poi l’avrebbe decurtato dalle tasse attraverso l’ammortamento del 100%.
Ma v’è di più. La normativa “Industria 4.0” consente un iper-ammortamento complessivo pari al 250%, con un guadagno fiscale di almeno il 150% in 5 o 8 anni, oltre al costo del macchinario che entra — di fatto gratuitamente — nel patrimonio aziendale.
Quindi, ipotizzando che quelle macchine, essendo pericolose e quindi inutilizzabili in ambito industriale, non avrebbero nemmeno consentito il semplice ammortamento ordinario, il danno per le casse dello Stato supera i 26 milioni di euro.
E non è solo una questione economica — che comunque non finisce qui — ma, prima ancora, un problema di sicurezza dei lavoratori.
E, come ho già detto, non è finita qui. Il malandrino, venuto a conoscenza della mia inchiesta, si starebbe affrettando a ritirare i macchinari pericolosi per sostituirli con modelli più recenti. Ma non pago delle sue malefatte, non ha pensato di rottamare le vecchie macchine: le sta reimmettendo sul mercato attraverso rivenditori compiacenti.
Questo meccanismo rischia di danneggiare ulteriormente le finanze dello Stato, perché — essendo dotate di certificazione — i nuovi acquirenti, probabilmente attraverso sovrafatturazione, potrebbero mettere in bilancio un ulteriore iper-ammortamento truffaldino.
Questo è l’esempio tipico — uno dei tanti — di come una gestione non etica dell’impresa si trasformi quasi sempre in attività criminale.
Mi chiederete: cosa c’entra tutto questo con la criminalità organizzata?
Semplice: il passaggio successivo per un imprenditore che genera profitti illeciti è necessariamente il riciclaggio internazionale, e questo monopolio appartiene alla criminalità organizzata.
Di tutto questo discuteremo durante il vertice.
Dicembre 2025
Claudio Loiodice
https://antoninocaponnetto.blogspot.com/2025/11/35-vertice-antimafia-fondazione.html



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